Prosegue
con immutata ispirazione e freschezza il percorso artistico di Randy Rogers e
dei suoi pards che ancora una volta volano a Nashville, nello storico studio A
della RCA, per incidere “Hellbent”,
affidato alla mano preziosa ed esperta di uno dei producer più in vista di
questi ultimi anni: Dave Cobb. E’ stata caratteristica peculiare della Randy
Rogers Band quella di lavorare con gente che ha garantito assoluta libertà
di espressione ma che ha anche cucito loro un suono personale che li ha resi una
delle migliori band tra rock e radici della scena non solo texana. Dopo Radney
Foster, il cui sodalizio è durato per più di un album, ci sono stati Jay Joyce,
Paul Worley, Buddy Cannon, tutti nomi legati ad una country music la cui
essenza è stata sempre al primo posto del proprio impegno, fondendo i suoni
‘classici’ con scelte più rock senza però stravolgere nulla. Dave Cobb ha quindi
lavorato di fino per far esaltare il songwriting di Randy Rogers che anche qui
ha scritto eccellenti pagine di musica con amici come Adam Hood e soprattutto
Sean McConnell, oltre a scegliere un paio di covers che ha sentito
particolarmente vicine alla sua sensibilità come per esempio la splendida “Hell
Bent On A Heartache” firmata da Guy Clark e dalla coppia Morgane & Chris
Stapleton che dà in parte il titolo al disco e la corale e spumeggiante “”I’ll
Never Get Over You” di Adam Wright dove è limpida l’unione tra la country music
del Lone Star State e ‘istanze’ country-rock che rimandano alle migliori cose
del genere negli anni settanta. La band è qui più compatta e coesa che mai, con
il fiddle di Brady Black in grande spolvero, la chitarra solista di Geoffrey
Hill sempre pronta ad entrare in scena e una sezione ritmica molto duttile
affidata a Johnny Chops al basso e Les Lawless alla batteria. La partnership
compositiva con Sean McConnell è tra le più ispirate e forma un po’ la spina
dorsale del disco con la nostalgica melodia di “Anchors Away”, la sostanziosa
essenza rock di “Comal County Line” in cui comunque non si dimenticano le
radici country, l’inevitabile colorazione mexican della bellissima “We Never
Made It To Mexico” e la tensione ‘western’ di “Fire In The Hole” a formare un
poker d’assi di qualità. Tutto l’album è comunque ricco di spunti, scorrevole,
piacevolissimo e da gustare in un sorso, con la sensazione di trovarci di
fronte ad uno dei capitoli migliori del pur eccellente cammino di Randy Rogers.
Remo Ricaldone
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