17:54

Ron Lasalle - Roads Taken

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Dalla nativa Niagara Falls, Stato di New York, Ron Lasalle ne ha percorsa di strada, macinando miglia ed esperienze che non gli hanno portato il successo commerciale ma una lunga sequela di amici/collaboratori che negli anni ne hanno fissato le coordinate di un suono intenso, corposo e profondamente coerente. La partnership con gente come Gary Tallent e Max Weinberg della E Street Band di Bruce Springsteen, Alto Reed, sassofonista con Bob Seger, Bucky Baxter, con Dylan e Steve Earle tra gli altri e George Marinelli, membro della band di Bruce Hornsby per anni e con Bonnie Raitt,  lo ha ‘formato’ dando vita ad un percorso che viene sublimato da un album come “Roads Taken”, titolo esplicativo di quelle che sono canzoni che rappresentano appieno il suo viaggio, tra rock e country, soul e canzone d’autore. Certamente vengono in mente, per approccio e filosofia di vita, John Hiatt, il Bob Seger delle sue ballate più ariose, tutto il ‘southern soul’ e l’altra faccia di Nashville che Ron Lasalle ha frequentato a lungo. “Roads Taken” è prodotto con mano sicura, pervaso da quell’irresistibile romanticismo di strada subito celebrato da una magnifica “Gypsy Road” posta in cima alla selezione e ‘faro’ di un’ispirazione guidata da una penna intrisa nel più classico ‘southern sound’ (ma anche spesso citando la scena di Asbury Park, tra Southside Johnny ed il primo Springsteen) e una voce che tocca le corde più intime e vere del nostro cuore. Le ‘strade intraprese’ in questo disco sono quelle che raccontano in maniera accorata la più genuina provincia americana, spostandosi di volta in volta verso atmosfere ‘swingate’ come nella frizzante “The Rest Of Our Lives”, il pianismo di una ballata profondamente ‘newmaniana’, intrisa di umori sudisti come “Somewhere After Goodbye” (e con un solo di Alto Reed commovente), “The Spice” che rimanda al Van Morrison più travolgente degli anni settanta, “Still Got Someday” dove sembra rivivere il più intenso ‘Jersey sound’ tra Southside Johnny e Gary US Bonds, la forza del rock di “That Was Then”, le sfumature country di “We Swore We’d Fly” e quelle ancora intriganti di “Ginny” in una ‘road song’ da manuale, vicina allo spirito di John Hiatt. Questo di Ron Lasalle è la conferma di doti notevoli, pur in presenza di molti riferimenti stilistici che comunque non inficiano un risultato più che positivo. Consigliato. E non solo come colonna sonora per i vostri viaggi.

Remo Ricaldone

 

17:52

Mike Spine - Guided By Love

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Mike Spine è un eclettico musicista che risiede a Seattle, Washington e ha già una buona discografia alle spalle, undici album che ne hanno definito suoni ma anche attitudini e sensibilità artistica. Molti sono gli spunti che emergono dall’ascolto di questo suo più recente “Guided By Love”, già dal titolo esplicativo dell’approccio accorato e profondo in un mondo caratterizzato da rabbia, odio, discriminazione e corruzione, dalle radici country sfiorate spesso in queste canzoni al più incisivo rock di marca roots con più di un collegamento con la scena del cosiddetto Paisley Underground di qualche decade fa. Vale la pena affidarsi al suo spirito condivisivo e appassionato per conoscere una bella realtà della scena d’oltreoceano in un lavoro che spesso trascina e molte volte evoca immagini intense quanto nitide. Curiosa ed originale è l’introduzione affidata alle sfumature ‘esotiche’ di Tangiers, riuscito mix di influenze, con la seguente “Smile On” che ci porta ad atmosfere care a band come Green On Red o Long Ryders. “Pancho And Lefty, Part II” è uno dei pezzi da novanta del disco, una sorta di proseguimento della classica composizione di Townes Van Zandt che qui mantiene fascino e calore, “Never Sell Your Soul” intriga per il suo andamento attendista ed evocativo, così come “Haunt On”, ballata di spessore. “Tears Of Mexico” incrocia i Calexico e si spinge nei deserti lungo il border con incisività e forza, dando poi spazio alla pianistica “Bloodless Eyes”, altra ballata che eleva il livello narrativo dell’album. “No Man’s Land” è cinematografica e vicina allo spirito di un west privo di ogni retorica e, avvicinandoci alla conclusione dell’ascolto, incontriamo una robusta “Good And Gone” ancora nello spirito dei Long Ryders, “Some Shows” e “Butterfly” che in maniera diversa mostrano un artista le cui doti meritano attenzione e che può entrare nei cuori di chi ama le commistioni tra rock e radici dei riferimenti fatti in precedenza.

Remo Ricaldone

17:50

Ellis Paul - 55

Pubblicato da Remo Ricaldone |

La pandemia, i lunghi mesi di isolamento hanno permesso a molti musicisti di concentrarsi sulla composizione, riprendendo appieno il proprio tempo e rivedendo in prospettiva le loro carriere. Così è accaduto anche per Ellis Paul, veterano della canzone d’autore, nativo del Maine e figura centrale della fertile scena di Boston, musicista che ha alle spalle più di venti dischi e un livello qualitativo che se possibile si è ulteriormente arricchito grazie ad una continua ricerca melodica tra folk, country e pop, con l’amore incondizionato per i Beatles che traspare in più di un’occasione anche in questo suo “55”. Ellis Paul è songwriter dotato di grande sensibilità i cui problemi di salute che si sono presentati negli ultimi anni (una malattia degenerativa che gli crea grossi problemi alle mani) hanno semmai contribuito a vedere la vita da un’angolazione differente, cosa che traspare da molte delle sue nuove canzoni, ad iniziare dal brano di apertura intitolato “Cosmos”, impreziosito da arpeggi acustici di grande qualità e che sono un po’ la caratteristica peculiare dell’album. Voce sussurrata, attenzione ad arrangiamenti in cui hanno grande peso chitarre e tastiere e che vedono presenti nomi noti della scena della east coast come il bassista Mark Dann (per anni alla corte di un altro ottimo cantautore come Rod MacDonald), la dobroista Abbie Gardner, il grande pianista Radoslav Lorkovic e la voce angelica di Laurie MacAllister a donare ulteriore grazia ed eleganza alle canzoni: caratteristiche che rendono estremamente gradevole ma anche poeticamente rilevante questo lavoro, spesso dai toni crepuscolari ma che spesso di apre a melodie solari e dalle immagini evocative. La delicata atmosfera country di “Who You Are” con il dobro a disegnare preziosi arabeschi, lo splendido pianismo che introduce “Holy”, ballata tra le più intense e commoventi che nel ‘chorus’ acquista inflessioni ‘irish’, conferma in pieno il talento di Ladoslav Lorkovic, “Gold In California” dalle movenze solari e dalle morbide armonizzazioni, l’inevitabilmente autobiografica canzone che da’ il titolo al disco (55 erano gli anni compiuti durante la pandemia e la creazione di molte di queste canzoni), “When Angels Fall” ad accarezzare il cuore prima di congedarsi con “A Song To Say Goodbye” sono certamente i momenti più emozionanti dell’album. Un lavoro ancora più meritorio se si pensa alle molte vicissitudini che Ellis Paul sta affrontando.

Remo Ricaldone

17:48

Drew Holcomb & The Neighbors - Strangers No More

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Drew Holcomb nell’ultima decade ha ricevuto ampi riconoscimenti da parte della critica americana per un lavoro maturo e completo che gli ha anche permesso di raggiungere i piani alti delle classifiche di Billboard. Il suo è un suono che unisce country music, roots-rock, new folk e in più di un caso ‘divagazioni’ pop e soul, tutti in qualche modo presenti in questo suo nuovo disco intitolato “Strangers No More”. Nove sono gli album incisi, spalmati nell’arco di una ventina di anni in cui Drew Holcomb ha saputo descrivere attitudini e riferimenti stilistici con un bel talento interpretativo e una sensibilità non comune. “Strangers No More” lo vede ancora supportato dai fidi Neighbors e con un sforzo compositivo che premia un percorso in continua crescita. Interessante è la partnership con Ketch Secor, leader degli Old Crow Medicine Show dalla quale sono scaturite due ottime canzoni, la suggestiva ballata “Gratitude” e la più movimentata “Dance With Everybody” con un bell’arrangiamento fiatistico e un bel lavoro di percussioni. Da segnalare “Troubles” come uno dei punti più alti della selezione, una country song nobilitata dalla splendida pedal steel di Nathan Dugger, mentre canzoni come “Fly” dal cristallino arpeggio chitarristico e “Free (Not Afraid To Die)” scritta a quattro mani con Natalie Hemby, giò membro della band tutta al femminile delle Highwomen aprono e chiudono in bellezza suggellando la riuscita dell’album. In mezzo c’è la nitida “Find Your People” che rimanda alle suggestioni folk dei Lumineers e vede protagonista il banjo del sempre bravissimo Nathan Dugger a caratterizzare la melodia, c’è l’alternative country vicina allo spirito ‘indie’ di “On A Roll” che con la seguente “Possibility” fissa emozioni non distanti dalle atmosfere ‘springsteeniane’ dei dischi più intimisti del Boss e c’è una vibrante “Strange Feeling” pervasa da armonizzazioni tra rock e pop. Un disco questo da gustare affidandosi al gusto per la melodia di Drew Holcomb.

Remo Ricaldone

10:08

Tim Grimm - The Little In-Between

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Ogni nuovo disco proposto da Tim Grimm rappresenta una poetica, intensa, emozionante, appassionata immersione nel cuore d’America. Non è un caso se il musicista dell’Indiana è in grado di entrare nel profondo della sua terra e di chi la vive e la lavora in maniera tanto naturale, tale è il rapporto simbiotico con i protagonisti della più reale e profonda provincia. Ne è scaturita quindi una sequenza di lavori che negli anni lo hanno portato a ritrarre nel migliore dei modi luoghi, situazioni, emozioni, persone, rendendolo eccellente storyteller, tra i più incisivi delle ultime decadi. Lo avevamo lasciato con un album sofferto e intriso di agrodolce e tagliente poesia come “Gone” dove non mancavano i riferimenti ad amici che non ci sono più (Eric Taylor, David Olney, John Prine e Michael Smith) in un’intensa carrellata di originali e cover e ora “The Little In-Between” aggiunge un ulteriore splendido tassello al suo percorso artistico. Album dalla genesi particolare questo, in cui i brani sono stati tutti registrati nel formato ‘voce/chitarra’ nei Breathing Rhythm Studios di Norman, Oklahoma e a cui sono stati aggiunti in un secondo momento i contributi della violoncellista Alice Allen dalla Scozia e, dagli studi Kitchen Sink di Santa Fe, New Mexico di Jono Manson, della sezione ritmica formata da Mark Clark alla batteria e da Justin Bransford al basso, con Sergio Webb a chitarra elettrica e steel. Naturalmente al centro di tutto ci sono le nuove canzoni di Tim Grimm, ancora una volta interpretate con un cuore grande così, con una grande attenzione a come narrare le intensità delle emozioni e a come renderle pura poesia. Una solida conferma la sua di doti estremamente importanti, anche a livello interpretativo, con una voce le cui sfumature non fanno che sottolineare passaggi dal notevole peso letterario, reso più apprezzabile dalle, ormai consuete in casa Appaloosa, traduzioni in italiano che aiutano fattivamente gli appassionati non così avvezzi alla lingua inglese. Nove sono le canzoni che danno vita ad una selezione che va ad inquadrarsi in una tradizione consolidata, quella di un cantautore che mai dimentica i suoi ispiratori (la chiusura di “Bigger Than The Sky” è fortemente caratterizzata dalla musicalità di John Prine per esempio) ma che al tempo stesso si è creato un suo stile personale. I fondamentali legami familiari di “New Boots” e della title-track “The Little In-Between”, l’amore per la natura che Tim Grimm vive ogni giorno e che risplende in “The Breath Of Burning”, i sentimenti talvolta contraddittori che albergano nelle nostre menti in “I Don’t Know This World” sono solo sprazzi di una poetica di grande rilievo che anche in questo disco appare nitida ed intensa. Un nuovo, ‘piccolo intermezzo’ nella vita di un grande del songwriting d’oltreoceano come Tim Grimm.

Remo Ricaldone

10:06

Dean Owens - El Tiradito

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Dai paesaggi della Scozia industriale agli abbacinanti scenari dei deserti del sudovest americano, il viaggio è decisamente lungo e tortuoso e Dean Owens da Leith, l’area portuale a nord di Edinburgo,  ha percorso con felice intuizione tutte quelle miglia riconsegnandoci un suono perfettamente e profondamente radicato nella storia, nella tradizione e nella leggenda di Tucson, Arizona. “El Tiradito” è la riproposizione di un trittico di ep che Dean Owens aveva dato alle stampe con il titolo di “Desert Trilogy”, una storia di amore e morte, di passioni e tragedie con sullo sfondo il ranch dove è protagonista Juan Oliveras, ancora oggi meta di ‘pellegrinaggi’ nel Barrio Viejo, la parte antica della cittadina di Tucson. Un doppio cd questo che approfondisce la storia, la descrive con grande efficacia e la divide in due parti distinte pur nella continuità di espressione, altamente descrittiva, tra ballate naturalmente desertiche, infatuazioni ‘mexican’ e l’aiuto fattivo e prezioso dei Calexico. E proprio Joey Burns e John Convertino sono i musicisti attorno ai quali ruotano i luminosi arrangiamenti del disco, con il supporto dei fiati mariachi di Jacob Valenzuela e Martin Wenk, della pedal steel di Paul Niehaus, del violino di Tom Hagerman, delle tastiere di Sergio Mendoza in una girandola di suoni  e colori che ammaliano l’ascoltatore portandolo direttamente negli affascinanti deserti del sudovest, tra rock e radici. Tra Dean Owens e i Calexico è scattata la scintilla e il risultato è di esrtema efficacia ed incisività in un primo disco dove la selezione è di grande qualità compositiva, mentre il secondo, interamente strumentale, non fa che rimarcare legami con i western di Sergio Leone giocando con limpidi rimandi cinematografici. Il fascino è palpabile ed evocativo specialmente nell’iniziale “Mother Road”, nell’intensa “Ashes & Dust” e poi in titoli come “Tombstone Rose”, “Riverline” e “The End” ma è un po’ tutto questo lavoro che sprigiona energia e poesia in un’alternanza di ritmi, di sfumature e di stati d’animo. “El Tiradito” è quindi un (doppio) album da non lasciarsi sfuggire se si vuole entrare in un mondo fatto di culture che si intrecciano e musiche che coinvolgono.

Remo Ricaldone

 

10:04

Matthew Check - Without A Throne

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Attualmente residente a Brooklyn, New York dove negli anni è passato da un ‘quasi bluegrass’ ironicamente nominato ‘jewgrass’ dalle sue radici ebraiche al folk-rock in compagnia della cantautrice Joanie Leeds come Joanie & Matt, il musicista nativo della Pennsylvania ha via via abbracciato quel suono tipicamente anni settanta che ha unito in maniera profondamente poetica country, pop, folk e rock trovando terreno fertile specialmente sull’altra costa, in California. “Without A Throne” battezza in maniera piena e completa una musicalità che ha trovato in questi anni molti epigoni e molti estimatori, senza fronzoli e senza soluzioni artificiose, dando invece spazio ad una poetica limpida e tersa. Inciso a Nashville sotto la supervisione e il fondamentale contributo strumentale del producer Thomas Bryan Eaton, “Without A Throne” è un disco dalla bellezza naturale, semplice, pulita, un lavoro la cui brevità (supera di poco i venticinque minuti per sette brani) non inficia un racconto proprio  per questo essenziale e mai dispersivo. L’album si apre con uno dei brani manifesto, una “The Very Beginning” che sottolinea l’inizio di un percorso maturato negli anni e vicino allo spirito di un Jackson Browne e di quella generazioni di artisti che hanno segnato specialmente una (lunga) stagione, quella degli anni settanta in cui si passò dalle utopie, dal ‘movimentismo’ e dall’impegno degli anni sessanta alle forme più intimiste e personali della decade successiva, la cosiddetta ‘me generation’. “Old Wooden Floor” rimanda alle atmosfere rurali del Neil Young più vicino ai suoni delle radici in un momento fortemente autobiografico legato ad un particolare momento della vita del protagonista e dei suoi problemi con l’alcool mentre “Pretty Mama” ribadisce con forza influenze country naturali visto il contesto in cui è concepita, mostrando un Matthew Check perfettamente a proprio agio. Il suono del disco è comunque in grande equilibrio e ci si sposta facilmente verso inflessioni più pop come nella piacevolezza pianistica della seguente “The Way That You Are” con ancora il gusto dei ‘seventies’ a farsi sentire, con “What A Father Would Do (Absalom)” a portare le atmosfere maggiormente verso il rock e con il piano di John Pahmer sempre in bella evidenza. “The Shape It Appears”, sontuosa ballata che sa di (real) country e “Because You Can” con le sue deliziose colorazioni caraibiche che ricordano un po’ i Grateful Dead e anche certe cose di Loggins & Messina chiudono in bellezza una bella sorpresa che merita l’attenzione di chi è legato ad un passato che continua a tornare e a ispirare.

Remo Ricaldone

10:02

Afton Wolfe - Twenty-Three

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Afton Wolfe aveva debuttato nel 2021 con “Kings For Sale” un disco che aveva sorpreso e colpito per la capacità di raccontare un profondo sud spesso alternativo alla narrazione e alla percezione corrente, unendo diverse sensibilità con un racconto dai toni ‘dark’ tra il gospel ed il blues da una parte e la country music e le sonorità ‘swamp’ dall’altra. Con una voce da più parti collocata tra Tom Waits e il Van Morrison ‘americano’ dei primi anni settanta, il musicista nato nella piccola cittadina di McComb, Mississippi e cresciuto nei luoghi storici della musica lungo il corso dell’omonimo fiume, da Meridian (dove nacque Jimmie Rodgers) a Hattiesburg e a Greenville ha assorbito tutto lo scibile della musica americana, senza farsi problemi nel mescolare radici ‘bianche e nere’ e a rileggere con spirito personale il tutto, dando vita ad un suono estremamente contemporaneo ed affascinante. Pur nella sua estrema brevità, “Twenty-Three” non fa che confermare la crescita interpretativa di Afton Wolfe, mostrando di avere anche notevoli doti compositive in un lavoro che cresce esponenzialmente con gli ascolti ed entrando stabilmente nel cuore di chi non crede e non ha steccati mentali. Si inizia con una “Cry” che affonda le proprie radici nel più puro e classico Memphis soul, interpretata con incredibile passione affidandosi ad un arrangiamento in cui fiati e cori femminili fissano le coordinate, mentre con la seguente “The Moon Is Going Down”, nostalgica e toccante, si ha la sensazione di ascoltare un Tom Waits nato e cresciuto con la country music nel cuore. “Truck Drivin’ Man” dall’andamento misterioso e scuro si muove tra rock e radici con l’ispirato violino di Rebecca Weiner Tompkins a ricordare il Mellecamp degli ultimi anni, “So Purple” annerisce nuovamente le atmosfere in un sinuoso ‘melting pot’ che rimanda ai migliori Neville Brothers e a quell’incredibile ‘fabbrica di suoni’ che ha fatto di New Orleans una delle grandi città musicali americane. “Late Nite Radio” è ballata notturna sofferta ed evocativa che unisce country, rock e soul in uno dei momenti più emozionanti del disco, con ancora il ricordo del miglior Van Morrison grazie agli interventi di fiati e al continuo lavoro di piano, un bravissimo Chad Stuible. Disco camaleontico e intrigante, degno seguito, seppur nella sua brevità, di un debutto da ricordare.

Remo Ricaldone

17:39

Jack Schneider - Best Be On My Way

Pubblicato da Remo Ricaldone |


Tra i più luminosi esordi di questi ultimi tempi, quello di Jack Schneider, storyteller nato a New York ma trasferitosi nel profondo sud prima in Georgia e poi, quasi inevitabilmente, a Nashville, rappresenta la più ispirata canzone d’autore che prende spunto dal folk e dalla country music per diffondere poesia, emozioni e grande passione. Fin dalla copertina con quel rimarcato amore per l’essenzialità e per i sapori ‘vintage’ abbiamo di fronte un album che rimanda alle molte produzioni artigianali tra gli anni sessanta e i settanta del secolo scorso riproponendo la stessa freschezza e lo stesso gusto melodico di cui è ricca la narrazione di Jack Schneider. Scorrendo poi le note di copertina ci rendiamo conto che questo è un lavoro da rimarcare per molteplici motivi: la registrazione in uno dei templi della città di Nashville come i Sound Emporium Studios e la presenza di nomi come Vince Gill, amico con cui il nostro ha stretto un solido patto di collaborazione negli anni scorsi, David Rawlings alle chitarre acustiche e al banjo, Stuart Duncan a fiddle e mandolino e  Dennis Crouch al contrabbasso tra gli altri, eccellenze della musica acustica legata alle radici. Il resto lo fanno le notevoli doti compositive, una finissima tecnica chitarristica e una voce perfettamente in grado di avvincere e commuovere, mantenendo per tutta la durata del disco, per le dieci pregevoli canzoni, un livello molto, molto alto. Difficile quindi scegliere un brano piuttosto che un altro in una selezione che non ha punti deboli, con un Jack Schneider sempre attento e misurato nell’esternare le proprie emozioni. Qui siamo dalle parti della più nobile tradizione cantautorale, prendendo spunto dal Bob Dylan ‘nashvilliano’ e bucolico dei suoi dischi di fine anni sessanta, dai troubadours texani ‘emigrati’ a Music City nella decade successiva come Guy Clark e Townes Van Zandt e dalla roots music del nuovo millennio come quella della coppia Gillian Welch e David Rawlings, senza poi citare due nomi come Ryan Adams e Neil Young da cui provengono certe inflessioni. “Josephine”, la title-track “Best Be On My way”, “Farewell Carolina”, la conclusiva “Del Rio Blues” e “Marietta” sono alcuni dei momenti migliori di un album da gustare nella sua completezza. Sicuramente tra i migliori dell’anno.

Remo Ricaldone

 

17:35

Doug Collins & The Receptionists - Too Late At Night

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Nato nell’Iowa ma da parecchio tempo residente a Minneapolis, Minnesota, Doug Collins è una delle migliori proposte delle Twin Cities in ambito roots con un contagioso e divertente ‘country’n’roll’ dove non mancano riferimenti melodici ai Beatles, fin da piccolo miti del nostro. Dal 2018 Doug Collins ha chiamato a collaborare il suo vecchio pard Charley Varley al basso, Billy Dankert ha preso posto dietro ai tamburi e Randy Broughton, eccellente pedal steel player, ha completato i Receptionists, solida e compatta band di accompagnamento. Con questa line-up è stato registrato anche questo “Too Late At Night”, disco che mette a fuoco le doti melodiche di Doug Collins e la sua freschezza ed intelligenza nel variare i temi, presentando così un lavoro più che godibile aperto da una classica “Drinkin’ Again” alla quale è posta una notevole ballata come “Stay The Same”, primo vero gioiellino dell’album. “Mexico MO” riprende le atmosfere del border care ai Calexico, “Mama’s Shoes” riporta ad una country music brillante in cui fa la parte del leone la pedal steel, costante presenza nel corso di una selezione si artigianale nella costruzione ma sempre credibile e soprattutto molto, molto piacevole. “Wish I Still Cared” si avvicina alla scuola country di Bakersfield con un ritmo cadenzato e limpido, “One Thing In Common” è un country-waltz ancora una volta interpretato con stile, senza spostarsi dalla tradizione ma proponendola con trasporto, “Sunday Afternoon” incrocia country music e fascinazioni legate alla ‘british invasion’, con il suo coinvolgente sapore pop, così come in “Dixon” dove non mancano i riferimenti ‘beatlesiani’. A chiudere un disco breve nei suoi poco più di trenta minuti, ma forse proprio per questo scorrevole e fluido, “Three Waves” e la sua country music dalle venature ‘sixties’ e “Hardest Part”, intenso brano acustico tra i più affascinanti della selezione. Perfetto congedo per una nuova, bella conferma del talento di Doug Collins e soci.

Remo Ricaldone

17:33

Hillsborough - Comin' Back For You

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Nati come ‘side project’ della rock band Sacred Shrines, tra le formazioni più in vista di Brisbane, Queensland, gli Hillsborough spostano il baricentro sonoro verso una buon alternative country condito da un’attitudine che di volta in volta li porta vicino alla psichedelia californiana degli anni sessanta e a certa country music di marca ‘outlaw’. A guidare gli Hillsborough ci sono Phil Usher e Beata Maglai ai quali forniscono una solida sezione ritmica Robbie Zawada al contrabbasso e Jonathan Pickvance alla batteria, protagonisti di un album in cui non mancano tentazioni ‘vintage’ ma con un feeling assolutamente contemporaneo. “Comin’ Back For You” è quindi un lavoro sorprendente che ci fa scoprire una nuova realtà del roots-rock ‘down under’ il cui piglio fresco e vibrante merita attenzione e garantisce una grande piacevolezza all’ascolto. “Trouble Finds Its Way” coglie subito nel segno con una melodia posta tra Byrds e Tom Petty con il fascino indelebile della California, con un’armonica che spunta tra chitarre e tastiere, “Magnetic Lives” porta in dote il roots-rock più classico e genuino al quale segue la passione rock di “Comin’ Back To You” e una ballata elettrica come “Exit Wounds” che fa emergere tutte le doti compositive di Phil Usher. Tra i momenti migliori del disco c’è la cadenzata “When Nobody Knows Your Name” con il folk nel cuore e un’altra bella armonica a segnare la melodia, subito seguita dalla eccellente “Stitches”, tra le più immediate ed appassionate, “Port Jackson Blues” interpretata con il cuore e con nella mente la tradizione americana nella sua accezione più autentica e “Laughing Clown”. A congedare un disco assolutamente interessante e consigliato ci sono due momenti di grande intensità emozionale, “Far Away From Here” e la più acustica “Queenie”, canzoni che arricchiscono di poesia e di liricità quello che si può considerare la definitiva maturazione degli Hillsborough.

Remo Ricaldone

17:30

Lynn Miles - TumbleWeedyWorld

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Tra le più belle voci del Canada legato alle radici country e folk, Lynn Miles è largamente apprezzata in patria per la sua grande sensibilità di musicista ma anche di attivista nel sociale con il suo impegno per migranti e persone con problemi mentali. Con ben quindici album alle spalle, Lynn mostra in questo suo nuovo disco tutta la sua carica umana e la sua capacità empatica di descrivere i rapporti interpersonali con garbo e poesia ma anche con forza espressiva ed incisività. Dieci canzoni sul filo dei sentimenti come l’incomunicabilità, le differenze che a volte distanziano le persone e le complicazioni insite nei legami affettivi, sul confine qui labile tra folk, country e bluegrass attraverso arrangiamenti acustici di estremo fascino e la presenza di un piccolo manipolo di eccellenti strumentisti. Il mandolino di Joey Wright, il banjo di Bob McLaren, il violino di James Stephens, il dobro di Stuart Rutherford ed il contrabbasso di Michael Ball fungono da stabile ed intrigante base sulla quel si dipanano le storie narrate con splendida voce da una Lynn Miles in ottima forma. La notte, spesso usata come metafora ma profondamente amata dalla protagonista, è presente in varie forme a partire dall’iniziale “Night Owl”, nella ballata dai contorni quasi western della notevole “Cold Cold Moon” e nell’altrettanto bella “Palomino”. Gli sbalzi d’umore raccontati intensamente in “Moody”, i vividi ritratti fotografati in “Hwy 105”, nella commovente “Johnny Without June dove i riferimenti del titolo vanno naturalmente alla coppia Johnny Cash e June Carter, i sentimenti agrodolci di ballate come “Hide Your Heart” e “All Bitter Never Sweet” svelano una emotività non comune da parte di Lynn Miles capace di condensare in pochi versi argomenti certamente complicati come i risvolti umani nei rapporti di coppia. Un disco questo “TumbleWeedyWorld” che contribuisce a rileggere queste tematiche in modo ricco di profondità poetica, sorretto da un accompagnamento strumentale assolutamente godibile e ricco di talento espressivo.

Remo Ricaldone

22:24

Rodney Rice - Rodney Rice

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Rodney Rice era entrato nei nostri radar grazie a due ottimi dischi incisi in Texas (“Empty Pockets And A Troubled Mind” del 2014 e “Same Shirt, Different Day” del 2020) che mostravano la sua splendida attitudine ad unire una vena cantautorale, maturata con l’ascolto di grandi del calibro di John Prine e Guy Clark, con inflessioni vicine a certo alternative country. Ora il musicista originario del West Virginia e residente in Colorado torna con un album omonimo che potrà dare il giusto riconoscimento delle sue doti di singer-songwriter solido e maturo e di performer completo. Inciso questa volta a Nashville, negli studi Bomb Shelter, “Rodney Rice” ha preso corpo partendo dall’idea originaria di incidere giusto due o tre brani ma aggiungendone altri fino a raggiungere un numero congruo per proporre un lavoro fatto e finito come questo. Pur essendo composto da canzoni concepite in momenti diversi mantiene quella coesione e quella compattezza che rendono l’album assolutamente godibile e vincente, a partire dall’apertura affidata a “How You Told Me So”, il momento forse più ricco e variegato musicalmente, vicino in alcuni momenti ad atmosfere ‘neworleansiane’ grazie al break di Kirk Donovan alla tromba. Ci sono poi momenti più robusti e roots-rock, con le chitarre elettriche di Sean Thompson e Steve Daily a fare da base a brani come “Got To Where I’m Going”, “Nothing To Lose” e soprattutto a “Wonder Where I Came From” che vedrei bene nel repertorio di Joe Ely, brani dalle melodie cristalline come “Little Pieces” che a me ricorda il Jerry Jeff Walker più ispirato e l’acustica “Roll River Roll” con il mandolino ed il fiddle (nelle mani rispettivamente di Ethan Bollinger e Billy Contreras) in primo piano e genuinamente country come “Rabbit Ears Motel”, brano di presentazione del disco con una melodia classica ed estremamente piacevole. Da sottolineare anche “Set ‘em Up” con un pizzico di anima blues e la conclusiva “Every Passing Day”, dall’intensa e solida melodia per un lavoro da rimarcare grazie all’ispirata vena di un musicista guidato da una sincera passione.

Remo Ricaldone

 

22:23

Mike Miz - Only Human

Pubblicato da Remo Ricaldone |

E’ da almeno una decina di anni che Mike Miz bazzica i club del nordest, dalla Pennsylvania fino ad Asbury Park, New Jersey (vi ricorda qualcosa?) e New York City proponendo un solido e passionale rock’n’roll ‘operaio’ permeato da inflessioni roots, aprendo i concerti per nomi come Jason Isbell, Jakob Dylan, Lukas Nelson, Southside Johnny, Shawn Colvin e Railroad Earth tra gli altri. Da qui si possono intuire le influenze e lo spirito che lo ha guidato ora a Nashville dove ha inciso il suo “Only Human”, disco coinvolgente e dalla brillante musicalità che fotografa molto bene il suo attuale ottimo stato di forma espressiva, tra l’amore per gli Stones dei primissimi anni settanta, il southern rock e i suoi epigoni (senza sminuirne il valore) come Black Crowes e simili. “Only Human” suona come disco onesto e genuino, non inventa nulla ma si pone come una bella boccata d’aria fresca dando vita a una selezione in cui forza e melodia si compendiano alla perfezione. “Hand Of The Sculptor” è ‘stonesiana’ al cento per cento, rimanda con le sue tendenze rock-blues ai tempi gloriosi di “Exile On Main Street”, disco epocale che continua ad influenzare generazioni di musicisti, “Six Ways From Sunday” non può che riportare ai Lynyrd Skynyrd con i fiati a contrappuntare un brano veramente trascinante, mentre “Understand” è ballata prettamente acustica interpretata con il cuore in mano, a controbilanciare lo stato d’animo di un lavoro comunque vario nei temi. “Wander Blue” tocca le corde di una country music ispiratissima, genuina e inserita in un contesto ancora ‘southern’ con una bella pedal steel a segnare la melodia, mentre piano e chitarra acustica introducono un’altra bella rock ballad di peso come “Less Than Paper Thin”. Non passa inosservato anche il bell’intermezzo acustico strumentale di “The Inn Between” che introduce l’intensa “You Make Me Feel” pervasa da un alone di grande passione, giusto il tempo per chiudere con un altro contagioso rock’n’roll come “Tail Lights”, degno saluto da parte di un altro nome che si può tranquillamente aggiungere alla lista dei ‘best kept secrets’ della scena tra rock e radici.

Remo Ricaldone

22:21

The Bluest Sky - The Bluest Sky

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Chuck Melchin ha guidato con mano sicura per una quindicina di anni i Bean Pickers Union, attraverso quattro album e un paio di ep, definendo le coordinate di un suono alternative country di grande fascino, profondamente interiore e poetico. Le sue doti compositive si sono così sviluppate in un’attività che ha reso la band una delle migliori realtà della east coast, pur in un ambito poco più che locale. Ora Chuck Melchin cerca nuovi stimoli dando una scossa più energica e fresca alla sua scrittura e al suo suono e sotto il nome di The Bluest Sky debutta in questo nuovo capitolo della sua carriera. Riprendendo le sonorità di band come Jayhawks, Bottle Rockets, Say Zuzu e Son Volt, Chuck Melchin mostra le sue qualità aggiungendo belle chitarre elettriche (nelle mani degli ottimi Andy Santospago e Gary Goodlow), hammond e piano (Duncan Watt e James Rohr alternativamente), una solida sezione ritmica e qua e la mandolino e pedal steel a sottolineare la sua passione per i suoni roots. “Belly To The Bar” che introduce l’album e “Amy Jean” danno l’idea esatta della nuova strada intrapresa con una verve inusitata, evocando per contro le infinite strade della provincia americana nella splendida ballata “New Berlin” o nella corposa “I Am James” che rimanda alla migliore ‘americana’. In una selezione ben equilibrata e ricca di spunti si segnalano ancora la frizzante e positiva “Wake Up Suzy”, “Drive Through Confessional” altra ballata sontuosa con il contributo chitarristico di Jon Nolan dei redivivi Say Zuzu, “Bunkhouse” con la sua robusta base chitarristica e “Bulletproof Man”, trascinante chiusura all’insegna del miglior roots-rock. In definitiva un disco dalle ottime potenzialità che si inserisce perfettamente nel filone tracciato dalle band citate in precedenza.

Remo Ricaldone

 

22:19

One Adam One - Where Do I Begin

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Dietro al nome One Adam One si celano due veterani della scena roots-rock di St. Louis, Missouri, Adam Reichmann e Todd Schnitzer, fin dagli anni novanta frontmen dei Nadine, interessante band che fece parlare di se per la freschezza della proposta, purtroppo rimasta a livello di culto soprattutto nel midwest. Ora i due ci riprovano debuttando con questo ep che mostra quanto la loro poetica sia intrigante ed evocativa e meriti senz’altro un ascolto attento da parte di coloro che apprezzano ‘americana’ e suoni alternative country. “Where Do I Begin” unisce alt-country a certi suoni roots di Tom Petty e Big Star con inevitabili innesti pop e una ricerca melodica di qualità, abbandonandosi a volte ad un ‘indie folk’ dai toni pastello. Solo cinque brani che però riescono a mettere a fuoco una vena che non si è esaurita con gli anni ma che ora riemerge con bravura iniziando proprio dalla title-track “Where Do I  Begin” giocata su atmosfere acustiche quasi ‘younghiane’ che rimandano anche a certe sonorità care ai Son Volt più roots. La seguente “Living Between The Lines” ha suoni più contemporanei e apre nuove frontiere alle sonorità di Adam Reichmann e Todd Schnitzer pur non rinnegando le proprie radici musicali, riprendendo come ispirazioni i Jayhawks che fungono da ‘guida spirituale’ anche per la bella “Hollywood Ending”, tra le punte di diamante del disco. “Cold Murmurs” prosegue in bilico tra folk e pop con un’altra melodia che si fa apprezzare per sincerità e poesia e apre la strada a quella che a mio parere è il vero gioiello di questo (purtroppo) breve excursus, la conclusiva “Platte River”, magnifica ballata che ha il sapore dei classici senza tempo. Assolutamente affascinante. Come appendice, ma solo a livello digitale, c’è una versione di “Living Between The Lines” ‘ripulita’ dal linguaggio ‘esplicito’ per la sua trasmissione nelle stazioni radio. Giusto una curiosità che non sposta il giudizio più che positivo su “Where Do I Begin”, ghiotta occasione per conoscere uno dei molti segreti ben custoditi della scena roots come Adam Reichmann, bravo autore e cantante nel dar voce agli affascinanti spazi del midwest.

Remo Ricaldone

18:37

Austin Mayse - Bridges and Kerosene

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Austin Mayse non è nuovo sulla scena texana, aveva debuttato nel 2009 con un disco intitolato “Devil On My Shoulder”, lavoro rimasto per anni il suo unico sforzo solista. E per anni Austin ha avuto i suoi alti e bassi, senza riuscire a dare seguito a quell’album che solo ora, grazie alla perseveranza di gente come il produttore Chris Beall, l’ingegnere del suono Ron Flynt e la coppia Walt e Tina Wilkins, vede la luce e lo proietta alla ribalta con forza e passione. “Bridges And Kerosene” mostra qualità nella scrittura, maturata fortemente rispetto agli esordi, convinzione nelle interpretazioni e finalmente un ‘abito’ cucito su misura che risulta intenso ed intrigante, nella migliore scia della tradizione del Lone Star State. Austin Mayse è cresciuto con la musica di Jerry Jeff Walker, BW Stevenson, Rusty Wier (con il quale ha collaborato e lo ha avuto come ‘ospite’ nel disco di esordio, poco prima che Rusty ci lasciasse) e lo stesso Walt Wilkins, trovando un suo stile narrativo che è il marchio di fabbrica dei musicisti texani viaggiando in bilico tra country music, fascinazioni folk e quella personalità e quello spirito non lontano da certo (roots)rock. “Bridges And Kerosene” è quindi un prodotto appetibile e ricco di spunti, solidamente costruito sulla base di storie credibili e vigorose che vedono alternarsi momenti più introspettivi ad altri più spigliati e frizzanti. “Leave Your Leavin’” apre nel migliore dei modi il disco con quella convinzione che mantiene per tutta la durata di una selezione equilibrata e foriera di una rinascita artistica piena e completa. “Wretch Like Me”, per certi versi autobiografica e con una punta di inevitabile ironia, “Rattlesnake”  dal piglio quasi western con le chitarre pregne di ‘twang’ e con un break di tromba dello stesso Austin Mayse, la deliziosa “Bluebonnet” con il segno distintivo di un grande amore per uno dei simboli texani, “On My Way” attendista e gustosa con le ‘pennate’ di steel guitar dell’ottimo Geoff Queen e la purezza country di “Whiskey, I’m Gone” caratterizzano la prima parte dell’album celebrando con la giusta intensità le proprie radici e gli amori di una vita. Con “The Sober Light” si riprende il discorso con un godibile ‘waltz time’ che ci porta per mano nella tradizione country più autentica, “The Last Rose Of Summer” è ancora pervasa dallo spirito musicale del Lone Star State nella sua accezione migliore con il bel fiddle di Jenee Fleenor, così come in “The Rose Of Thorndale” mentre la conclusione è affidata a “Traveler’s Prayer” che conferma profondità ed eccellente senso melodico. Perfetta chiusura di un album che non farà fatica ad entrare nelle grazie di chi ama i suoni roots che provengono dal Texas.

Remo Ricaldone

18:34

Steve Dawson - Eyes Closed, Dreaming

Pubblicato da Remo Ricaldone |

“Eyes Closed, Dreaming” è la chiusura di uno splendido trittico musicale proposto nell’arco di un solo anno da Steve Dawson, musicista e produttore canadese ma stabilmente residente a Nashville. “Gone, Long Gone” e “Phantom Threshold” erano stati i primi due capitoli, estremamente sapidi e gustosi, di un percorso idealmente ripreso e ‘chiuso’ da un lavoro di cristallina bellezza dove la collaborazione ‘a distanza’ causa pandemia dei vari musicisti non preclude la riuscita e la coesione del progetto. Questo grazie alla versatilità dei personaggi coinvolti, ad un repertorio attentamente scelto per fare risaltare tutta la forza espressiva dei suoni roots, dal soul al folk, dalla country music al blues e alla sensibilità di Steve Dawson a guidare con mano sicura arrangiamenti che passano dall’essenzialità della tradizione ai  fiati dal sapore ‘southern’ ad archi dall’afflato profondamente poetico. Spiccano in queste sessions i tamburi del grande Jay Bellerose, i contributi preziosi di Tim O’Brien al mandolino e Fats Kaplin a svariati strumenti a corda, le tastiere di Kevin McKendree, le sontuose armonie vocali di Allison Russell, oltre, tra gli originali, la partnership compositiva di Steve Dawson e dell’amico e ottimo songwriter Matt Patershuk, valore aggiunto del disco. Molti sono i brani le cui melodie risultano piacevolmente note, dal traditional “House Carpenter”, rivisto ispirandosi all’arrangiamento che ne fecero i britannici Pentangle, a “Small Town Talk”, ‘signature song’ di Bobby Charles, passando per “Long Time To Get Old” di Ian Tyson e la classica “Guess Things Happen That Way” firmata da Cowboy Jack Clement e portata al successo da Johnny Cash. “Eyes Closed, Dreaming” è album di grande finezza, interpretato con naturalezza e intensità, giocato su emozionanti intrecci acustici e sul talento di un artista a tutto tondo come Steve Dawson che negli anni ci ha regalato gioiellini che meritano di essere ripresi e riconosciuti come alcune delle cose più interessanti pubblicate nell’ambito roots.

Remo Ricaldone

18:32

Laura Zucker - Lifeline

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Californiana, avvocato di successo, Laura Zucker ha scelto di percorrere le strade musicali abbracciando un interessante intreccio di canzone folk, di country music d’autore e di inflessioni pop, calcando i palchi più nobili come quello del Kerrville Folk Festival in Texas  o di Falcon Ridge nello Stato di New York. Sei sono i dischi al suo attivo con una costante crescita compositiva ed interpretativa che ora sfocia nei tredici quadretti che compongono questo “Lifeline”, prodotto sapientemente da Ed Tree, sensibile e prezioso anche dal punto di vista strumentale la cui impronta è fattiva in ogni capitolo dell’album. Qui ci sono spesso gli echi della splendida eredità musicale di Kate Wolf a cui idealmente molti brani sono legati, ma anche alla delicatezza e al gusto di autrici e cantanti come Carole King, Judee Sill, Mary Chapin Carpenter, Mary McCaslin e Beth Nielsen Chapman, mantenendo comunque personalità e carattere. L’impianto sonoro è prettamente acustico, le atmosfere sono ‘color pastello’, le liriche mostrano una capacità di introspezione notevole e gli arrangiamenti, volutamente essenziali, contribuiscono a creare un ‘mood’ avvolgente e affascinante. La coesione è tra i pregi maggiori di “Lifeline”, non ci sono magari picchi o potenziali hit da classifica ma nemmeno cadute di stile o di tono, tutto è ricondotto ad uno stile che spesso fa leva sulla nostalgia e sulle emozioni ‘semplici’, assioma tipico della country music e del folk. In questo senso piace citare “No Good Way To Say Goodbye” dalle belle tinte country, la delicatamente jazzata “Autumn” che ben esplicita e descrive le sensazioni portate da quella stagione, la poesia della pianistica “Do You See The Moon”, la bellezza di melodie come “Holy”, “Takes The Shape Of You”, la title-track “Lifeline” e “Highwire”, poker di grande efficacia ed intensità che conferma capacità descrittive non comuni. Una strada quella di Laura Zucker percorsa con grande cuore ed empatia che non mancherà di scaldare i nostri di cuori.

Remo Ricaldone

18:30

Tapestri - Tell Me World

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Lowri Evans e Sarah Zyborska sono due ragazze gallesi che amano le armonizzazioni vocali e i suoni di ispirazione folk e country che portano al di la dell’oceano in un viaggio artistico che le vede ora debuttare sotto il nome di Tapestri. “Tell Me World” è al tempo stesso l’arrivo all’agognato esordio ‘a lunga durata’ dopo essersi fatte notare nei folk clubs del Galles e sul palco di alcuni importanti festival come quello storico di Cambridge e la partenza di un percorso che può consegnare loro soddisfazioni e riscontri positivi nella scena roots. Dieci sono i brani racchiusi all’interno del disco, alcuni già proposti nelle versioni inglese e gallese e trasmessi da radio regionali con buoni consensi per un risultato veramente interessante per la qualità delle composizioni e per una produzione curata e stimolante che le accosta di volta in volta a certa canzone d’autore folk e ad una country music legata a suoni acustici. Introspezione, nostalgia, temi legati all’impatto degli abusi domestici e alle emozioni trasmesse dalla vita di tutti i giorni sono al centro delle liriche di Lowri e Sarah, con tutto il bagaglio delle loro esperienze personali, mentre musicalmente ci sono brani che le hanno fatte accostare alle armonie di Crosby, Stills, Nash & Young (come in “Workshop” e in “She’s A Lover” per esempio) e momenti in cui si aggiungono sezione ritmica e steel avvicinandole alla country music indipendente. C’è la speranza dopo le tragedie della pandemia nella limpida melodia di “Come Alive”, la struggente malinconia di “Atgofion (Sweet Memories)”, c’è “Y Fflam (Open Flame)” il primo brano composto dalle Tapestri, quello che ha dato il via alla loro collaborazione dopo essersi incontrate al Festival Interceltico di Lorient in Bretagna, la soffice, soffusa e pianistica “Waiting In The Background” tra le cose più intense del disco e il gusto country di “Save Your Love”, tutti motivi più che validi per accostarsi alla musica spesso sognante ed incantevole di questo duo.

Remo Ricaldone

18:20

Helene Cronin - Landmarks

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Helene Cronin aveva debuttato nel 2019 (dopo l’ep “Restless Heart” di qualche tempo prima) con un ottimo disco intitolato “Old Ghosts & Lost Causes” che svelava un’autrice sensibile e una bella voce appassionata e profonda. Per il seguito a quel disco Helene ha voluto fare le cose in modo meditato e attentamente studiato, pur affidandosi alla stessa intelligente e fruttuosa produzione di Matt King e il supporto di alcuni dei migliori nomi di Music City come il chitarrista dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart Kenny Vaughn, il bassista Byron House, i tamburi di Jerry Roe, Bobby Terry con le sue chitarre ma anche a pedal steel, mandolino e banjo oltre allo stesso King a chitarre, tastiere e armonie vocali. Ci sono voluti almeno un paio di anni per dare corpo ai brani che compongono “Landmarks”, brani arrangiati in maniera superba, talvolta più acustici e in altri momenti con un maggiore peso strumentale, qualitativamente importanti e dotati di sfumature che rendono l’insieme decisamente godibile. I temi come i rapporti interpersonali e il modo in cui vengono affrontate le difficoltà della vita sono qui espressivi e maturi, visti attraverso la lente di ingrandimento di una personalità di valore, di grande empatia e solidarietà. Molti sono i momenti che toccano profondamente il cuore come “Halfway Back To Knoxville”, ballata intensa e commovente, la ritmata e gustosamente country “Between Me And The Road”, “Just A Woman” riflessiva e con un bel ‘parterre’ di voci femminili che donano ulteriore sostanza alla ballata, la title-track “Landmarks” con una delle migliori interpretazioni vocali dell’album, la solida ed efficace  “What They Didn’t Build”, “Make The Devil” segnata splendidamente dal banjo di Bobby Terry, “What Do You Lean On” con le sue belle chitarre elettriche che danno un sapore ‘byrdsiano’ alla canzone,  “Bodies Of Water” dalle movenze evocative che rimanda ad alcune ballate della grande Mary Chapin Carpenter, la frizzante “Cross That River” che chiude la selezione, tutte ugualmente efficaci e ricche di pathos. Un ulteriore capitolo positivo, un sostanziale passo avanti per una voce da considerare tra le migliori della scena indipendente americana.

Remo Ricaldone

 

18:18

Craig Bickhardt - Outpourings

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Dai club di Philadelphia alla west coast passando per i migliori salotti nashvilliani: quella di Craig Bickhardt è stata una carriera piena e soddisfacente che ha incrociato la più ispirata canzone folk (quella dei vari Tom Rush, Eric Andersen e Gordon Lightfoot, tre giganti che hanno fatto da ispirazione costante al suo lavoro) e la country music più genuina e sincera. Autore apprezzato, vocalist estremamente modulato, un pickin’ chitarristico dai toni pieni e solidi, personaggio dalle doti limpide che ne hanno accompagnato dagli anni settanta il lavoro, Craig Bickhardt è tornato da qualche anno ‘a casa’ nella nativa Pennsylvania per produrre dischi dall’alta qualità melodica mettendo a frutto un’esperienza compositiva di primissimo livello (le sue canzoni negli anni sono state interpretate da gente come Ray Charles, Johnny Cash e Alison Krauss tra gli altri)  e questo “Outpourings” che arriva a quattro anni di distanza dal precedente “Home For The Harvest” lo presenta più in forma che mai. Un disco dalla struttura essenzialmente acustica nobilitato dalla ricerca costante di diffondere un messaggio di accoglienza, empatia e speranza di cui abbiamo un forte bisogno, raccontato con una naturalezza disarmante e rilevante dal punto di vista poetico. Per inciderlo Craig Bickhardt è sceso a Nashville dove si è sempre trovato perfettamente a proprio agio e si è affidato al genio e alla perizia di una serie di eccellenti sidemen come John Mock alla chitarra, al pennywhistle e all’harmonium, a Byron House al contrabbasso e  Pete Wasner alle tastiere, con il supporto importante dell’ex Poco Tom Hampton, del bravissimo Bill Miller, musicista di origine nativa con il suo ‘Native American flute’ e Michael G. Ronstadt (nipote della più celebre Linda) al cello. Ne escono fuori tredici vignette evocative e ricche di umanità che fotografano uno storyteller dalla splendide doti, tredici momenti che compongono un insieme che accarezza l’ascoltatore e gli infonde sentimenti e vibrazioni positive senza mai risultare retorico o stucchevole, da “Breaking The Bread” a “I Live For This” che aprono e chiudono il disco, passando per “Hills Of Geronimo”, “Emerald Eyes”, “Steal Home (Letter To Curt Flood)” e “China Blue”, giusto per fare qualche esempio. “Outpourings” è comunque un album dotato di grande coesione e compattezza, doti che ne fanno lavoro altamente consigliato.

Remo Ricaldone

 

18:16

Ben Bedford - Valley Of Stars

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Album numero sei per Ben Bedford da Springfield, Illinois, tra i migliori storytellers di questi anni per intensità e profondità poetica ma anche per eccellente tecnica chitarristica, qui ancora più sottolineata nella sua finezza e gusto. “Valley Of Stars” è stato disco dalla genesi sofferta e complicata, figlio di un periodo in cui Ben Bedford ha dovuto affrontare grandi problematiche personali, divenuto quasi per caso una sorta di ‘concept album’ dai risvolti catartici e liberatori. Un lavoro personale che lo avvicina come ispirazione al primo Bruce Cockburn, quello dei suoi straordinari lavori dei primi anni settanta e ai grandi cantautori britannici del passato, da Nick Drake a John Martyn, passando per il suo caro amico/collega Rupert Wates, tra i più interessanti nuovi nomi del folk contemporaneo. “Valley Of Stars” mostra fino in fondo e ad ogni piega la magia di una scrittura limpida che porta avanti una narrazione in cui i protagonisti sono anche i suoi stati d’animo, le sue paure, i suoi sogni, componendo un insieme come detto estremamente coeso e compatto, cucito assieme da alcuni momenti strumentali di grande efficacia. L’intima essenza di una personalità sfaccettata nella sua poetica emerge nitidamente da brani come “Leaping”, la splendida “Murmurations”, “Leopard & Hare” e “Weasel, Pike, Fox & Kite”, consigliatissimi inviti ad entrare nella magia di un ottimo album come “Valley Of Stars”, scritto, prodotto e illustrato con il valido supporto dell’amato gatto Darwin.

Remo Ricaldone

 

18:14

JD Malone And The Experts - Even Sunbeams

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Sia da solista che da frontman per una decina di anni dei Steamroller Picnic, JD Malone si è distinto per una interessante vena in bilico tra rock e radici, prendendo ispirazione dal più ruspante suono ‘americana’ che lo ha portato dal nativo Vermont dapprima sulla costa ovest e poi tra Philadelphia e New York State per incidere i suoi dischi. Dopo l’esperienza con la sua prima band, JD ha intrapreso un percorso solista che ora lo vede incidere con The Experts, solido combo che vede il fidato producer Pete Donnelly (già con l’inglese Graham Parker e The Figgs) al basso, Tommy Geddes alla batteria, Nate Gonzales alle tastiere e Avery Coffee alle chitarre. “Even Sunbeams” è disco si breve (poco più di trentun minuti) ma dal gustoso e frizzante roots-rock, interamente composto dallo stesso JD Malone, maturo e appassionato, segno di un percorso indovinato che negli anni lo ha visto condividere il palco tra gli altri con personaggi del calibro di Steve Forbert, Eric Andersen, John Gorka, Pat Green, Radney Foster, John Fullbright, Eilen Jewell, Marcia Ball e Buddy Mondlock, tutti in un modo o nell’altro artisti che hanno lasciato qualcosa in fatto di ispirazione al nostro. Questo suo nuovo lavoro arriva dopo ben sei anni dal precedente “Town And Country” e risulta nelle sette canzoni che lo compongono sincero e genuino sin dall’iniziale solida “Blue Impala”, con un ottimo lavoro di Nate Gonzalez alle tastiere che sostengono una melodia azzeccata, derivativa ma ricca di fascino. Altrettanto efficace è la melodia di “The Strongest Oak” che conquista dalle prime note, attendista e avvolgente quella della pianistica “Lottery Tickets”, ballata di gran qualità che a me ricorda alcune cose di Elliott Murphy, notevole quella di “Lucky 44”, altro punto di forza dell’album, mentre la suggestiva “Home Of The Brave” è giustamente posta in chiusura con il suo fascino discreto che cresce ascolto dopo ascolto, così come fa il disco di JD Malone e dei suoi Experts, buona occasione per conoscere un musicista molto interessante.

Remo Ricaldone

16:41

Angela Easterling - Witness

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Angela Easterling da Greer, South Carolina non è un nome nuovo negli ambienti country, folk e americana: 6 album all’attivo, la partecipazione ad alcuni dei migliori festival statunitensi, la considerazione da parte delle radio di settore da entrambe le parti dell’oceano e l’aver aperto i concerti per musicisti del calibro di Carolina Chocolate Drops, Jim Lauderdale, Lucinda Williams, Mary Gauthier e moltissimi altri fa di lei un’artista matura e consapevole. Dotata di ottime capacità compositive e di una voce cristallina, Angela Easterling ci regala un disco di grande impatto in cui l’ispirazione non manca per tutta la durata di una selezione ricca sia musicalmente che a livello di liriche, liriche che affrontano temi mai banali come identità di genere, tematiche sociali e rapporti interpersonali nella loro coniugazione più profonda. “Witness” è lavoro prezioso aperto dalla splendida melodia di “California” in cui emerge tutta la bravura vocale della protagonista a cui segue la limpida “Home” dalle tonalità calde e nostalgiche. “Little Boy Blues” ha tutto il gusto del ’deep south’ con le sue inflessioni tra rock e blues, “Halfway Down” riporta il tutto nell’ambito di una country music decisamente intensa, “Keep Your Head Down, Johnny” vira verso affascinanti lidi bluegrass e “Middle-Age Dream” si posiziona tra rock e radici. Ugualmente interessante è la seconda parte del disco con l’ottima “Witness” che mantiene la fascinazione rock, “Deportee (Plane Wreck At Los Gatos)” di Woody Guthrie interpretata con buon piglio è l’unica cover confermando con canzoni come le conclusive “Baby Bird” e “Grow Old”  Angela Easterling songwriter di vaglia. Una cantautrice che ha definitivamente raggiunto la maturità artistica.

Remo Ricaldone

16:39

Stefan Prigmore - Everything Is At Least Both

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Quella del texano Stefan Prigmore è una scrittura asciutta, tesa, evocativa che si colloca tra country, folk e canzone d’autore, una musicalità che lo affianca a grandi come John Prine, Chris Knight, Jason Isbell e Ian Noe. Racconti di un’America di provincia che nelle sue mani assume toni e colori estremamente poetici, avvalendosi di un fascino inversamente proporzionale all’essenzialità degli arrangiamenti. “Everything Is At Least Both” è prodotto a quattro mani dallo stesso Prigmore e da Clay Parker che già era al suo fianco nel precedente “River/Blood” e lo supporta strumentalmente intrecciando chitarre acustiche ed elettriche, con l’ulteriore aiuto da parte di James McCann a dobro e pedal steel e di Pete Damore del duo Ordinary Elephant al mandolino. L’album è un viaggio intenso, accorato e agrodolce su strade sicuramente già battute ma proposte con un talento non comune, cantate esprimendo in ogni canzone emozioni vere. Un disco coeso che chiede solo attenzione e cura e sa regalare ballate struggenti e storie spesso tormentate. “Gunpowder And Pine”, “Devil Dogs And The Rattlesnake”, “CV One Nine” ma anche “I Play C” e le suggestioni  (real) country di “Door Girl” risultano semplicemente irresistibili per chi ama una certa idea d’America che ha a che fare con l’immaginario più poetico e suggestivo, mutuata dal cinema indipendente e dai romanzi di questi anni. Stefan Prigmore è senz’altro nome da tenere d’occhio.

Remo Ricaldone

 

16:37

Grey DeLisle - Borrowed

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Grey DeLisle ha nel corso della sua carriera percorso strade personali e sempre alternative al ‘mainstream’, aggiungendo alla propria musica un afflato poetico e a tratti ‘dark’. Da una quindicina di anni ha deciso di mettere la musica in secondo piano, preferendo dedicare il proprio tempo alla famiglia, ‘makin’ babies instead of makin’ records’ usando le sue parole. Un lunghissimo periodo ora interrotto da una raccolta di brani da lei profondamente amati, affidandosi alla produzione di Marvin Etzioni. L’atmosfera è quella da lei prediletta, scarna, sognante, evocatica ed il repertorio colpisce per originalità e anche  coraggio, ‘citando’ i Pink Floyd e Hoagy Carmichael, Marc Bolan e Julie Miller in un insieme intrigante che cresce ascolto dopo ascolto. La cantautrice californiana torna a noi quindi con la stessa voce pungente e nitida che a tratti rimanda alla migliore Dolly Parton (per esempio la splendida “Borrowed And Blue”, unico originale, composto con Marvin Etzioni), non scalfita dagli anni e anzi ancora più convincente e matura. “Another Brick In The Wall” spiazza subito per scelta che pare lontanissima dalla sua personalità ma che funziona pur non finendo tra le cose migliori di un lavoro che vede nella rilettura di “Georgia On My Mind” con la presenza della sempre magnifica armonica di Mickey Raphael, la dolce “You Are The Light” con Marvin Etzioni (anche autore) al mandolino e Tammy Rogers al fiddle, la sorprendente rivisitazione di “You Only Live Twice”, tema dell’omonimo film della serie 007 che nel 1967 venne portata al successo da Nancy Sinatra, il viaggio a New Orleans di “Calvary” con un godibile arrangiamento di fiati, “All My Tears” gioiello dalla penna di Julie Miller e, come bonus track, “Willie We Have Missed You” già inserita nel tributo alla musica di Stephen Foster “Beautiful Dreamer” tra i momenti topici di questo “Borrowed”. Album che ha il pregio di riportare in attività un personaggio dai molti talenti e dalla visione priva di preconcetti. Da sentire.

Remo Ricaldone

 

16:35

Kenny Shore - Time Stands Still

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Kenny Shore è un cantautore dalla vena e dalle ispirazioni che passano dal folk al country e talvolta si spingono verso fascinazioni ‘neworleansiane’ e vicine allo spirito del Van Morrison più roots nel suo periodo americano nei primi anni settanta. Il musicista del North Carolina è legato fortemente alla tradizione e personaggi come John Prine e Guy Clark rimangono punti di riferimento fondamentali della sua arte. “Time Stands Still” è manifesto nitido del suo modo di essere e condensa le sue passioni in maniera semplice e sincera, affidandosi alla produzione di Jerry Brown e all’accompagnamento di un manipolo di sidemen ispirato e discreto che lo supporta a dovere. Scorrendo il percorso sonoro di questo suo lavoro salta subito all’occhio e rimane tra le cose migliori l’omaggio a John Prine in “Almost Like Heaven” mentre suggestioni quasi soul emergono dall’iniziale “Put Yourself In My Shoes” grazie all’organo hammond di Joe MacPhail e al sax baritono di Danny Abrams. Schiettamente country è la melodia di “Wander Around” con banjo e lap steel, avvolgente quella di “She’s Broken”, pimpante e gustosa “Down In Louisiana” che ci porta direttamente a New Orleans, tutte interpretate con profonda sincerità. “Everything We Needed” sottolinea ancora la poetica di Kenny Shore, intensa ed autentica, “Able To Try” ha ancora il profumo soul delle ballate di Van Morrison, con il supporto vocale della brava Taz Halloween, la title-track “Time Stands Still” si riappropria dei suoni più country con un altro momento tra i più belli, accarezzati da chitarre acustiche e mandolino, poco prima di congedare l’ascoltatore con il breve strumentale “The 24th Of June” in cui il nostro si cimenta al banjo. Un disco che ha il merito di farci conoscere un artista schietto e genuino.

Remo Ricaldone

 

18:25

Brian Blake - Book Of Life

Pubblicato da Remo Ricaldone |

“Book Of Life” è prima di tutto un profondo atto d’amore: nei confronti delle proprie radici familiari, delle tante piccole realtà di provincia e della più genuina tradizione cantautorale texana. Un disco che è il debutto per Brian Blake, storyteller con base a Memphis, Tennessee ma con il cuore che punta dritto verso il Lone Star State dove per generazioni ha vissuto la sua famiglia e dove è tornato per incidere uno dei migliori dischi di questo 2022 in ambito country-folk. Brian è un autore dalla vena purissima, eccellente vocalist con inflessioni che a volte rimandano al primo Lyle Lovett e chitarrista dalle notevoli doti tecniche. Prodotto dalla coppia Walt Wilkins e Ron Flynt, entrambi coinvolti fattivamente nelle registrazioni a percussioni e voce il primo, a basso e tastiere il secondo, “Book Of Life” è un vero gioiellino dove ogni brano è un quadretto affascinante della più autentica ‘small town America’ con il proprio bagaglio di sentimenti, di personaggi, di storie. Equilibrato e ricco di poesia, il disco si apre con quello che è il manifesto del talento di Brian Blake, “Rice Fields In The Distance”, emozionante per feeling e cristallino per la performance, con il fiddle di Warren Hood a regalare momenti da pelle d’oca. Un viaggio questo raccontato con grande forza espressiva e la bravura di una serie di sidemen con i fiocchi che nobilitano nel migliore dei modi un esordio di rara intensità, con momenti di assoluta eccellenza come “Rose Marie”, “Meant To Be”, “The Ott Hotel”, “Move On J.D.” (storia di un veterano di guerra divenuto senzatetto al suo ritorno), la title-track, la struggente “In Too Deep” e la splendida chiusura affidata a “Nothing Gold Can Stay” nella più classica vena dei migliori Texas troubadours. Caldamente consigliato.

Remo Ricaldone

 

18:23

Randy Palmer - Deeper Water

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Cantautore dalla vena gentile e calda, Randy Palmer da Amarillo, Texas, incarna l’anima più ‘folkie’ della country music, quella dove le storie rivestono grande importanza e vengono consegnate in una veste essenziale ma al tempo stesso molto curata, con ogni intervento di fiddle, mandolino o pedal steel perfettamente incastonato in un contesto decisamente affascinante. “Deeper Water” è lavoro di spessore poetico, prodotto da Merel Bregante in quel di Austin con il corollario di nomi importanti di quella scena, da Peter Wasner alle tastiere a Sarah Pierce alle armonie vocali e a Dave Pearlman a dobro e pedal steel, fino al prezioso contributo di Cody Braun a fiddle, mandolino e armonica. La selezione è estremamente equilibrata, giocata su godibilissimi ‘tempi medi’ e la costante ricerca di un’ispirazione melodica che va di pari passo con liriche dai temi universali come rapporti interpersonali, l’infanzia e la sua magia ed il calore familiare. Ci si spinge a volte verso territori western come in “Welcome To My World” mentre tra i momenti più riusciti ci sono “Somewhere Down The Line” e “High Plains” che rappresentano al meglio il talento di Randy Palmer come autore e performer. “Summer Of ‘65” è un efficace racconto di nostalgia, orgoglio e impegno sociale, una canzone sul crescere con i propri ideali ed il proprio impegno sociale, la title track “Deeper Water” introdotta da un bel duetto fiddle/mandolino è genuinamente scorrevole, “Choose Love” congeda invece l’ascoltatore con un altro momento in cui la country music si presenta nella sua versione più efficace. Quello di Randy Palmer dunque è l’ennesimo nome da appuntare sulla propria agenda se amate i suoni in bilico tra country e folk.

Remo Ricaldone

18:22

Peach & Quiet - Beautiful Thing

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Dopo il promettentissimo esordio di due anni fa intitolato “Just Beyond The Shine”, album che ha ricevuto ottime recensioni da entrambi i lati dell’oceano, il duo canadese dei Peach & Quiet, al secolo Jonny Miller e Heather Read, torna ad incidere con un lavoro che fa far loro un ulteriore passo avanti nel percorso verso la completa maturazione. “Beautiful Thing”, prodotto impeccabilmente da Steve Dawson, tra i più prolifici e sagaci in ambito roots, porta in dote un suono che aggiunge armonie cristalline ad un mix di country-folk-rock dagli echi che rimandano alla indimenticabile ed irripetibile stagione musicale di Laurel Canyon. Accompagnati da un piccolo ma ispiratissimo combo in cui spiccano le chitarre dello stesso Steve Dawson, i Peach & Quiet ci regalano una selezione tutta firmata dalla coppia che intreccia temi ambientali, spessore poetico e il sapore del nativo Canada, spesso in primo piano come ispirazione e profondo amore. Dalla title-track posta ad introdurre il disco ai tenui riferimenti ai primissimi Steely Dan di “Calgary Skyline”, dal solido (roots) rock di “Empty Pockets” con una potente performance vocale di Heather Read alle finezze elettro-acustiche di “Just Before The Dawn”, tutto concorre a creare un quadro decisamente godibile che prende spunto dalle molteplici influenze della coppia. Suggestiva ed affascinante, tra gli ‘highlights’ dell’allbum, è “Oklahoma Or Arkansas” dalle sfumature più country-folk, mentre “Save Me Tonight” è ballata che tocca il cuore, “Song From A Tree” è acustica e folkeggiante e “When You’re Gone” con un organo che dona toni soul è la degna chiusura di un lavoro estremamente curato, buon viatico per una delle molte belle realtà in terra canadese.

Remo Ricaldone

18:19

Wyatt Easterling - From Where I Stand

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Attivo nell’industria discografica da anni come autore, produttore e A&R per un certo periodo con la Atlantic, Wyatt Easterling ha focalizzato da qualche tempo la propria attività dedicandosi in prima persona ad una carriera come cantautore facendo tesoro delle molteplici esperienze accumulate. Il suo è un intreccio di country, folk, pop e ‘adult contemporary’ che vede in questo “From I Where I Stand” lo sviluppo di temi interessanti ed ispirati. Dotato di una buona facilità di scrittura e di una voce piacevole e modulata, Wyatt Easterling ha giocato le proprie carte al meglio costruendo una selezione solida e duttile, meditata a lungo anche a causa dell’inevitabile stop imposto dalla pandemia che in questo caso gli ha permesso di mettere a punto un lavoro curato fin nei minimi particolari, senza però perdere in immediatezza. Personalmente in certe canzoni vengono a galla similitudini con James Taylor con il quale sono condivisibili calore vocale e momenti elettro-acustici come ad esempio nella cristallina “This Old House”. In un insieme decisamente coeso dove non ci sono particolari cambi di marcia, spiccano senza dubbio la canzone che da’ il titolo al disco, “From Where I Stand”, “Where This River Goes” e “Bigger Than Dallas” alle quali va la palma delle più coinvolgenti secondo chi scrive, “Throw Caution To The Wind” e la conclusiva “Traveling Light”, eccellenti esempi di un songwriting maturo e pulito. Wyatt Easterling ha così confezionato un prodotto certamente non rivoluzionario ma che al proprio interno conserva più di un momento da ricordare e che merita l’attenzione di chi riserva importanza alle emozioni semplici ma proprio per questo vere.

Remo Ricaldone

17:16

TOM HAMPTON - Out To Pastures

Pubblicato da Remo Ricaldone |

Tom Hampton è un cantante, autore e polistrumentista che attualmente risiede a Nashville ed è stato per breve tempo protagonista dell’ultima stagione dei Poco terminata con la scomparsa di Rusty Young nel 2021. Un’esperienza che seppur breve lo ha toccato nel profondo tanto da dedicare questo suo nuovo disco intitolato “Out To Pastures”, il primo da una decina di anni a questa parte, al ricordo, spesso struggente di un’irripetibile stagione musicale. Prima come fan, poi come amico ed infine come collega, Tom Hampton ha saputo creare un forte legame con Rusty Young e Paul Cotton e ha gravitato con nomi di quel giro tra country e rock con sapienza e sensibilità. Tutto questo è trasposto nelle dieci canzoni dell’album, in gran parte composte da Young e Cotton, andando a riprendere brani come “Us” (da “Head Over Heels”) e “Running Horse”, due piccole gemme dal repertorio dei Poco. Già l’acustica “Wildwood (Livin’ In The Band)” è un sentito tributo ai Poco, posta ad introdurre una selezione interpretata con gran cuore e talento cristallino. “One Tear At A Time” e “Please Wait For Me” sono ancora estratti da album dei Poco più o meno recenti, non del periodo ‘classico’ ma dalle avventure della band nelle ultime decadi, così come la title-track di “Blue And Gray” di metà anni ottanta ripresa con romanticismo ma senza eccessi di zucchero. Interessanti sono poi la lunga e ‘younghiana’ “Legends”, brano dello stesso Hampton sul significato di essere musicista perennemente in tour lontano dai propri affetti, la solida melodia di “Crazy Love”, un hit dei Poco di fine anni ’70 e la struggente melodia di “Where Did The Time Go” composta a quattro mani da Rusty Young e dallo stesso Tom Hampton. Chiusura perfetta ed in tema con lo spirito di un lavoro estremamente interessante.

Remo Ricaldone

Iscriviti alla newsletter