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con cadenza regolare la voce strascicata ed evocativa, la caratterizzazione un po’
arruffata ma densa di riferimenti country, folk, blues e old-time di Malcolm
Holcombe, musicista che arriva dalle Blue Ridge Mountains del North Carolina
con il suo bagaglio di radici tradizionali filtrate da una grande personalità
ed originalità. “Pretty Little Troubles” segue infatti di appena un anno
“Another Black Hole” e ne segue anche le impronte fatte di notevole devozione
per la sua terra e di profondo amore per la canzone d’autore tra Texas (chiaro
e frequente il riferimento alla scrittura di Guy Clark per esempio) e gli Stati
a sud della linea Mason-Dixon. La produzione passa dalle esperte mani di Ray
Kennedy, dietro alla consolle del precedente album, a quelle altrettanto
sapienti di Darrell Scott, tra i migliori ‘storytellers’ in circolazione e
abbastanza intelligente da non cambiare suoni e inflessioni, mantenendo intatto
il fascino un po’ ‘obliquo’ e variegato di Malcolm Holcombe, qui ancora
profondo ed introspettivo, affascinante e misterioso. I suoni blues e gospel
della tradizione afro-americana sono fusi con maestria con quelli country, folk
e anche ‘irish’ del retaggio bianco, risultando naturalmente affiancati ad una
vena cantautorale pura ed incontaminata. “Yours No More” ad esempio vede
eccellenti colorazioni gospel incontrare la canzone folk, “To Get By” fa
rivivere i ‘good old days’ con i suoi suoni tra bluegrass e old-time senza aver
paura di essere ‘politically correct’ nel linguaggio e nell’approccio, “Outta
Luck” è ballata superba che inevitabilmente ricorda il songbook di Darrell
Scott, qui sempre presente con i suoi strumenti a corda. E accanto a Darrell
Scott c’è il mandolino e il dobro del fedelissimo Jared Tyler, le chitarre del
grande Verlon Thompson a ribadire il legame con il citato Guy Clark, l’esperto
basso di Dennis Crouch, l’armonica di Jelly Roll Johnson che fa capolino qua e
la, Joey Miskulin alla fisarmonica e il mitico Kenny Malone alle percussioni.
Un ‘parterre de roi’ insomma che nobilita una vena compositiva sempre ottima
come dimostra “South Hampton Street” con il fascino di certe canzoni marinare e
la dolcezza un po’ bohemienne per la presenza della fisarmonica, la cristallina
bellezza di “Rocky Ground” ballata nostalgica intepretata col cuore pensando a
Guy Clark, “Bury, England” altro gioiellino di equilibrio acustico tra
chitarre, dobro, mandolino e armonica, “Damn Weeds” folk song che riporta
all’età d’oro del revival della canzone tradizionale nei primi anni sessanta con Dave Van Ronk in mente,
“The Eyes O’ Josephine” con tutto il suo fascino anglo-scoto-irlandese e “We
Struggle”, discorsiva e rilassata. Solo alcuni esempi questi che non fanno che
confermare un ‘body of work’ decisamente superiore alla media e meritevole di
essere apprezzato e conosciuto.
Remo Ricaldone
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