Definire
un musicista come Matt Patershuk country è certamente limitativo ed impreciso
sebbene spesso emergano forti inflessioni che lo portano nel cuore di questi
suoni. Il canadese di La Glace, Alberta abbraccia in maniera ampia e completa
lo spettro delle sonorità roots americane e lo fa con una personalità e un
talento che spero lo possano far conoscere ed amare da molte più persone e non
più come uno dei segreti meglio custoditi della numerosa schiera di musicisti
‘north of the border’ che in questi anni abbiamo apprezzato. Il suo terzo disco
intitolato “Same As I Ever Have Been” segue il già notevole “I Was So Fond Of
You” di cui ci eravamo già occupati e prosegue ed amplia quella visione
originale e magistralmente poetica che è una delle peculiarità di Mr.
Patershuk, vero poeta e artista a tutto tondo. Un grande passo in avanti in
termini di suoni con la produzione di Steve Dawson a proporre una continuità di
intenti ma con un ‘songbook’ che si arricchisce di colorazioni e di emozioni
che conquistano. I suoni sono secchi, scarni, essenziali sempre vibranti ed
incisivi quando Matt Patershuk evoca i
suoi amori musicali, dalla country music di Johnny Cash, Kris Kristofferson o
Waylon Jennings al country blues di Fred McDowell o al cantautorato di John Prine
e il tutto si incastra alla perfezione componendo un quadro nitido seppur
variopinto. In poco meno di un’ora di
viaggio passiamo da una “Sometimes You’ve Got To Do Bad Things To Do Good” roca
ed ‘annerita’ quasi come se uscisse dal repertorio di un Tom Waits dedito a
sonorità roots a due gemme country come “Gypsy” e la ruspante “Hot Knuckle
Blues”, entrambe impreziosite dalle armonie vocali di Ana Egge. Poi è tutta una
serie di rimandi alla tradizione, filtrati da una sensibilità notevole e da un
filosofeggiare su temi country e blues tipico dei grandi. “Good Luck” è
imbevuta dalle sonorità paludose del Delta, con il mandolino di John Reischman
a rafforzare la melodia e il drumming eccelso di Jay Bellerose, a mio parere
uno dei migliori batteristi in circolazione, “Memory And The First Law Of
Thermodynamics” mi ricorda un Terry Allen canadese con la sensazione di poesia
ed ispirazione sempre presente. Da sottolineare ancora la splendida naturalezza
country di “Blank Pages And Lost Wages”, corposa nell’arrangiamento con le
chitarre elettriche di Steve Dawson, il fiddle di Josh Zubot e Ana Egge sempre
deliziosa, la ruvida bellezza di “Cheap Guitar”, ipnotico blues che il sax di
Jerry Cook rimanda a certe cose dei Los Lobos e ancora ai ‘Lupi’ di East L.A.
si può rifare la ‘mexican flavored’ “Sparrows”. Un disco questo che in qualche
modo riconcilia come approccio ai suoni roots, nella concezione ampia e
diversificata che Matt Patershuk interpreta e che lo impone come uno dei nomi
più validi di una scena come quella canadese che non finisce mai di stupire.
Remo Ricaldone
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