Da
Leicester, Inghilterra a New York è stato un inevitabile passo nel percorso
musicale di James Maddock, musicista innamorato profondamente di quel rock che
viene in contatto con soul e canzone d’autore figlio di Bruce Springsteen, Van
Morrison e di tutti quei grandi personaggi che negli anni si sono riconosciuti
in questi suoni, da Dirk Hamilton a Southside Johnny fino a Graham Parker. James
Maddock si è distinto per genuinità, passione e per quell’urgenza poetica nel
raccontare storie urbane di amore e redenzione, con profondo gusto melodico e
il supporto di una serie di eccellenti sidemen che hanno caratterizzato ottimi
dischi come “Sunrise On Avenue C” (probabilmente il suo lavoro più
significativo), il live “At Rockwood Music Hall” e “Wake Up And Dream” incisi
tra il 2009 ed il 2011. “Insanity Vs. Humanity” riporta ad alti livelli la sua
musica dopo un periodo di appannamento e fa piacere che a dargli fiducia ci sia
una label italiana come la sempre più attiva Appaloosa. Il suono è corposo ed
ispirato, le tastiere in primo piano (non purtroppo con l’immenso Oli
Rockberger qui ospite all’organo ma comunque con il bravo Ben Stivers),
chitarre che sferzano e una rodata sezione ritmica con i fedelissimi Drew
Mortali al basso e Aaron Comess alla batteria. Ospiti graditissimi sono poi il
mai troppo considerato Garland Jeffreys alle armonie vocali e l’eccellente
David Immergluck dei Counting Crows, grande amico e più volte compagno di tour
acustici di James Maddock al mandolino. “Insanity Vs. Humanity” è album lungo,
composito e stimolante, lo stato di forma compositivo di James Maddock è
eccellente e lo dimostra subito con una “I Can’t Settle” avvolgente nella
melodia e arrangiata con gusto e acume dove chitarre e tastiere si amalgamano
perfettamente. Tra i momenti più significativi a mio parere risaltano una “Watch
It Burn” rockistica al punto giusto con un refrain che mi ricorda certe cose di
Bob Seger, la splendida “The Mathematician” traboccante di umanità e di cuore, “What
The Elephants Know” solida rock ballad che profuma tanto di Sud, “Kick The Can”
a rappresentare il classico ‘script’ di James Maddock, midtempo sospeso tra
nostalgia e ricordi, il gustoso ritratto di “The Old Rocker” in una cadenzata
canzone che riporta ai fasti del grande rock di marca britannica negli anni
settanta, dai Faces a tutto il cosiddetto ‘pub rock’ e poi la title-track, una
ballata pianistica notevole in cui si contrappone la follia (umana) e l’umanità
e “Nearest Thing To Hip” forse il punto più poetico e alto dell’album, tra il primo
Springsteen e Van ‘The Man’, pianoforte in primo piano, melodia da ricordare.
Un disco questo che ad ogni ascolto riserva nuove scoperte e grandi emozioni.
Remo Ricaldone
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