Jim
Stanard è a tutti gli effetti considerabile un ‘late bloomer’: influenzato fin
dalla più tenera età dalla musica, l’ha vissuta da spettatore crescendo negli
anni sessanta, imbracciando la chitarra senza la velleità di diventare un
artista professionista. Tom Rush, naturalmente Bob Dylan, la tradizione di Doc
Watson ma anche la poesia rock di Bruce Springsteen, Woodstock nel 1969 e mille
altri stimoli sono entrati nel cuore di Jim Stanard senza però convincerlo ad
intraprendere una carriera musicale. A distanza di oltre quattro decadi, dopo
aver speso la propria vita lavorativa tra finanza ed assicurazioni, Jim Stanard
è stato spinto dalla moglie a riavvicinarsi alla musica, questa volta
proponendosi da protagonista grazie ad una vena cantautorale gentile e profonda
allo stesso tempo, tra folk, country e venature (soft) rock. “Bucket List” è il
piacevolissimo risultato di tutto ciò, completamente concepito dallo stesso
Stannard che ha curato produzione e composizione dei brani, interpretando il
tutto senza straordinarie doti vocali ma con quel tono rilassato, vissuto e
convincente tipico dello storyteller. “Bucket List” scorre con grande
naturalezza toccando temi e sensazioni universali come politica, amore,
rimpianto e nostalgia, mantenendo musicalmente buono il livello complessivo,
alzando ogni tanto (ma non più di tanto) i ritmi in una selezione
complessivamente virata verso la canzone d’autore folk, fondamentalmente il suo
primo amore nei giorni passati nella storica Main Point Coffehouse di Bryn
Mawr, Pennsylvania. “Dogs Of War”, “Hard To Please”, “Can’t Happen Here”,
“Sparks, Nevada”, la title-track e “It’s All Turtles” formano un po’ la spina
dorsale di un disco comunque solido e godibile, non originalissimo forse ma che
merita di essere apprezzato per grande onestà di fondo.
Remo Ricaldone
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