Nato
a San Antonio ma cresciuto a Lubbock, Bob Livingston è un nome storico in
Texas. Membro fondatore della Lost Gonzo Band, band accompagnatrice di Jerry
Jeff Walker e vera fucina di talenti nell’ambito della scena del Lone Star
State negli anni settanta, anni di rivoluzioni outlaw da quelle parti, con nomi
come John Inmon, Gary P. Nunn, Ray Wylie Hubbard e tanti altri, Bob Livingston
ha caratterizzato queste ultime decadi con una canzone country d’autore
efficace e pregevole, rimanendo sempre legato alle proprie radici e spesso
riprendendo materiale dei ‘compadres’ che lo hanno affiancato nelle sue
attività. Molti sono stati i riconoscimenti da parte della critica e numerosa e
affezionata la platea di appassionati che lo hanno seguito nel corso degli
anni, ‘fan base’ che è stata ripagata con dischi di valore come “Gypsy Alibi”
del 2011, uno dei suoi lavori più importanti in una discografia comunque ricca
e corposa. “Up The Flatland Stairs” arriva a colmare uno spazio di sette anni
dal precedente album e lo fa con una forza espressiva e divertimento notevoli.
L’attesa è stata ricompensata da un lavoro lungo, articolato, coinvolgente che
tocca i vari temi e suoni del Texas che amiamo, dalla ballata allo swing
attraverso tutte le sfumature di un ‘melting pot’ appassionante. Bob Livingston
dimostra di essere in forma come autore, lucido come interprete dando spazio a
cover scelte con oculatezza e confermando la sua bravura anche quando collabora
nella scrittura con altri. “Up The Flatland Stairs” si apre con una bella
versione di “Shell Game” di Jerry Jeff Walker, omaggio ad un nome al quale è
ancora profondamente legato, così come tra gli ‘highlights’ troviamo
partnership con amici e colleghi del calibro di Gary P. Nunn (“Public Domain”,
Texas swing irresistibile e “Don’t It Make Sense”), Michael Martin Murphey (“It
Just Might Be Your Lovin’”), Andy Wilkinson (la languida western ballad
“Cowgirl’s Lullaby”) e John Hadley (“A Few Things Right”). Intrigante è poi il
profumo sixties di “The Usual Thing”, la freschezza di “A Month Of Somedays”,
un folk-rock che suona splendidamente tra dodici corde elettriche e gustose
armonie vocali, la dolcezza infinita di “The Early Days” di Walter Hyatt, il
rockin’ country di “You Got My Goat”, mentre il finale è affidato all’acustica
e ‘grassy’ “Nervous Breakdown”, bonus track che chiude un album dai molti
spunti e momenti di interesse.
Remo Ricaldone
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