Andrew
Hawkey è il classico musicista che ha passato la sua carriera ‘sottotraccia’
esibendosi nei piccoli club senza mai agganciare il treno della fama preferendo
una vita fatta di emozioni ‘ordinarie’ ma non per questo meno vissute. Nato in
Cornovaglia ben settantasette anni fa, Andrew Hawkey ha trascorso anni
nell’Inghilterra rurale prima di trasferirsi nella ‘swinging’ London degli anni
sessanta e per lungo tempo nel Galles dove attualmente risiede. La sua visione
musicale è sempre stata legata ai suoni americani, folk, blues e country e
tutto questo è racchiuso in questo suo album intitolato “Long Story Short”, una
sorta di riassunto delle sue radici, un interessante percorso tra ballate folk,
fascinazioni country e quel pizzico di blues/soul a rendere vario il suo
repertorio, basato essenzialmente su ballate descrittive e delicate. A me ha
subito ricordato il cantautorato country di personaggi come Bill Staines e
Chuck Pyle con quello stile discorsivo e quieto che è stata la caratteristica
peculiare anche di ottimi songwriters inglesi come Allan Taylor e Ralph McTell
ai quali Mr. Hawkey sembra aver preso ispirazione. “Long Story Short” è
prodotto con intelligenza dallo stesso Andrew Howkey con la collaborazione di
Clovis Phillips, personaggio dal nome poco noto ma dal curriculum ricchissimo
per i suoi legami artistici con gente del calibro di Gail Davies e Jeb Loy
Nichols del quale gruppo fa attualmente parte. Scelta ovvia è stata quella di
vestire queste canzoni di un arrangiamento elettro-acustico che non sovrastasse
la voce del protagonista, non particolarmente potente ma giusta per i suoni
proposti, e la presenza di un bel tappeto di chitarre e dell’aggiunta di volta
in volta di pedal steel, banjo e armonica è risultata vincente. La colloquiale
“Dear Friend”, la più vivace “Golden Heart (On A Rusty Chain)”, il brano con maggiori legami
con la country music, la cristallina “A Little More” che rimanda al Christy
Moore più intimo e romantico, la bella e profonda “The Believer”, le godibili
inflessioni soul di “Jones On Me” e la title-track, pianistica, che chiude nel
migliore dei modi il disco, sono il filo conduttore di una selezione che cresce
con gli ascolti riservando momenti di riflessione e di piacevolezza.
Remo Ricaldone
0 commenti:
Posta un commento