Dopo
quindici album sparsi nell’arco di quasi quattro decadi Darden Smith,
cantautore texano cresciuto con l’ispirazione dei grandi storytellers suoi
conterranei come Guy Clark e Townes Van Zandt oltre a John Prine e maturato
attraverso un percorso che ha compreso rock e canzone d’autore, aveva quasi
preso la decisione di interrompere una discografia comunque importante iniziata
nel 1986 con un fulminante debutto intitolato “Native Soil”, con tutte le carte
in regola per affiancarsi ai migliori esponenti della country music venata di
folk tipica del Lone Star State e poi snodatasi attraverso un elaborato e
personale percorso che ha ampliato molto i suoi orizzonti sonori. Per fortuna
Darden Smith non solo è tornato sui suoi passi ma ha messo a frutto un lungo
periodo in cui ha viaggiato intensivamente lungo tutto il Texas appuntando
immagini, suoni e sensazioni con un eccellente e poderoso lavoro intitolato
“Western Skies”, un album intrigante e un libro che lo accompagna con tutto il
fascino delle migliori ‘road stories’. Le undici canzoni che compongono il
disco sono pura poesia e fotografano tutta la vastità, i miti, i personaggi e
le emozioni che attraversano l’animo umano di fronte a luoghi così
affascinanti. Spesso accompagnato dal piano, accarezzato da una strumentazione
essenziale che lascia spazio alle melodie e ad un’interpretazione sempre
accorata e intensa, “Western Skies” si snoda magistralmente avvicinandosi
talvolta a sonorità che rimandano al Jackson Browne più costruttivo e in altri
momenti a Terry Allen e alla sua poetica. Viene così definito con stile e
passione un mondo in cui convivono fantasmi del passato, il deserto come entità
metafisica, i sentimenti contrastanti della solitudine e del calore umano dei
personaggi che abitano quelle terre. Il tutto proposto con una voce che ha
maturato tutta la sua espressività e un approccio delicato e ricco di
sfumature, cedendo in qualche momento al fascino latino del border come “I
Don’t Want To Dream Anymore” e nei cenni quasi ‘jazzy’ di “I Can’t Explain”. Il
meglio a mio parere arriva comunque con le molte ballate pianistiche che fanno
da spina dorsale dell’album: tra l’iniziale “Miles Between” dalle inflessioni a
la Terry Allen al commovente commiato di “Hummingbird” c’è più di un momento
che lascia il segno, come l’affascinante “Western Skies” con i suoi pregevoli
arpeggi acustici, e l’accoppiata “The High Road” e “Los Angeles”, da brividi
per intensità poetica. “Western Skies” nasconde più di un gioiello nelle pieghe
di una selezione godibile e seducente. Chi ama la canzone d’autore più adulta e
matura non potrà che godere di ogni
capitolo.
Remo Ricaldone
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